La storia del Bar Jamaica di Milano | Elle Decor

2022-09-10 04:50:07 By : Mr. zhengjun li

Il racconto del locale meneghino che ha ospitato fra tavolini e bancone scrittori e celebrità politiche più famose di tutti i tempi

Giugno 1911: il primo tappo di sughero vola per aria al Bar Jamaica di Milano. Così, una bottiglia di bollicine inaugurava uno spazio dalla vita lunga. Sì, questo spot centenario nel quartiere meneghino di Brera c'è ancora - è vivo - e fra pareti e bancone cela una storia da raccontare. La serranda alzata, già cento anni fa, dava appuntamento ai personaggi di spicco del Novecento: passare dal Jamaica significava incontrare le celebrità della politica e dell'arte. Per questo motivo il locale, tuttora, vanta una fama illustre. E il nome tropicale non stona con il clima europeo. Si dice che a ridosso dell'apertura Giulio Confalonieri - musicologo, noto anche per l'abilità spiccata al pianoforte - abbia evocato a voce alta, fra le pareti del locale, un film inglese diretto da Alfred Hitchcock. Sì, la pellicola gialla La Taverna del Jamaica, interpretata da sir Charles Laughton e Maureen o'Hara, è la prima, vera antenata di questo spazio ancora devoto allo svago.

Appuntamento al Jamaica. Negli anni d'oro, lì, c'erano Benito Mussolini con la penna rossa in mano pronto a correggere gli articoli del suo Popolo d'Italia, modelle e studenti. Il pienone di artisti - da Gianni Dova a Roberto Crippa, da Cesare Peverelli a Bruno Cassinari, da Samboné a Roberto Treccani - arrivò nel 1948, quando Elio Mainini (gestore senza tempo del Jamaica) organizzò una mostra d'arte dal titolo Premio Post-Guernica, una riunione di opere d'eccellenza firmate da alcuni degli artisti del cosiddetto Consorzio dei Cervelli. Fu un successo. E il Bar Jamaica si trasformò nel caffè degli intellettuali. Salotto di conforto, bancone al quale affidare nuove idee e correnti (anche letterarie) nascenti, lo spazio rappresentava un dopolavoro senza orario per tutti: gli scrittori avanguardisti Germano Lombardi, Nanni Balestrini e Luciano Bianciardi; e le giovani penne figurativiste di Valerio Adami e Antonio Recalcati. Filosofie, esistenze e pensieri differenti non spaventavano il Jamaica. Anzi.

Dietro al bancone La Lina - per dirla alla milanese - faceva credito a fondo perduto. Il suo quaderno, héritage d'epoque, esibiva una lista fitta fitta di nomi d'artista senza spicci in tasca ma con il conto da saldare. Al figlio Elio - già nominato - spettava la scelta dei vini, gli esperimenti con lo shaker in mano e la composizione dei vassoi di accompagnamento. Grazie ai consigli di Arrigo Cipriani e Gualtiero Marchesi, Mainini diffuse carpacci e tartine da abbinare ai bicchieri di vino meno popolari e più ricercati. Per intenderci - e i milanesi lo sanno bene - i tramezzini del Jamaica hanno fatto la storia dell'aperò. Con il tempo, anche fotoreporter, giornalisti e cinefili del calibro di Ugo Mulas, Mario Dondero, Alfa Castaldi si trovarono in quel bar perfezionando la storia, già celebre, di un locale da bohème ambrosiana. Fra riconoscimenti (anche ufficiali, da parte del Comune di Milano) e incontri, il Jamaica fu casa della Beat Generation e dell'urlo poetico di Allen Ginsberg, che trascorreva ai tavolini gran parte dei suoi pomeriggi. Che storia affascinante. È la storia del Jamaica. Che è (anche) la storia di Milano.